Giorno 1 – Sabato 16 novembre
Il popolo delle nuvole. Qualcuno li chiama così poiché nelle loro terre nel Sahara nord occidentale i Saharawi erano nomadi che si muovevano seguendo la pioggia, spostandosi fra il deserto e l’oceano. La prima volta che l’ho letto, in un articolo sulla storia di questo popolo, mi è sembrato un nome tanto poetico quanto premonitore.
Il popolo Saharawi oggi è davvero un “popolo delle nuvole” poiché non ha una terra sua o meglio, non ce l’ha più. Ne aveva una bellissima, fra deserto e oceano appunto, con lunghe coste pescose e, nascosto sotto la sabbia, un’enorme tesoro di fosfati e altre preziose risorse.
Da anni seguo la questione, affascinata dalla loro posizione di resistenti pacifici e convinta della validità della loro causa. Per alcune estati poi abbiamo accolto in famiglia i bimbi saharawi che vengono in Italia, principalmente per far conoscere la propria situazione – chiamati infatti non a caso “piccoli ambasciatori di pace” – ma anche per effettuare visite mediche altrimenti impossibili presso i campi profughi in Algeria.
Ma l’idea di andare in visita ai campi profughi saharawi non mi aveva mai sfiorato. Io sono una vera comodona ed il solo pensiero di muovermi senza la mia “casa con le ruote” al seguito mi affatica.
Invece eccomi qua, con le valige già pronte… ed io ancora no.
Al contrario per Asaria questo viaggio è imprescindibile, un viaggio del cuore, per una causa che ormai dopo tanti anni sente come propria, in un legame indissolubile fra noi qui in Italia e le famiglie dei “nostri” bimbi laggiù ai campi.
Lei voleva partire a tutti i costi e, con quella furia passionale tipica degli adolescenti, non è stato possibile convincerla ad aspettare nemmeno i due anni che la separano dalla maggiore età. Ad oggi è minorenne ed un genitore deve esserci, almeno pro forma intendiamoci. Per cui mentre sulla carta io la accompagno, nella realtà invece è lei che accompagna me, che mi rassicura in questi giorni che precedono il viaggio e che continuerà a placare le mie ansie anche nei giorni a venire.
Così con queste premesse sono due notti che non riesco a dormire e stamani la sveglia è impostata per le 4:15. Un caro amico si è proposto di accompagnarci al ritrovo ed evitarci di dover far fare questa levataccia anche alla piccola Alice, che dovrà invece partire domani mattina per la Francia, in Erasmus… ovviamente la gestione della nostra famiglia girellona non è mai troppo facile!
La partenza è alle 6:00 con l’autobus da Sesto, l’arrivo all’aeroporto di Tindouf (il più vicino ai campi saharawi) è previsto nella notte, ritardi aerei esclusi.
Il primo tratto in autobus fino a Roma è l’occasione per iniziare a conoscere i nostri compagni di viaggio, fra una chiacchiera ed un pisolino. Il gruppo sembra composto tutto di bellissime persone: ci sono cinque ragazze del liceo Agnoletti di Sesto accompagnate dal loro professore di storia (che in pochi giorni diventerà per noi tutti “il prof.”) che viaggiano per raccogliere filmati e registrazioni per il progetto di un podcast sul popolo Saharawi; una giovanissima dottoressa che recuperiamo all’uscita dell’autostrada, perché è appena smontata dal turno di notte; e poi un cuoco; due educatrici; tre signore impegnatissime nel sociale che ci hanno raggiunto fin da Torino; giovanissime ragazze impegnate nella politica (quella vera con cui si cerca di fare il bene di tutti e non il proprio)… tutte persone accomunate dall’intenzione di dedicare un po’ di tempo a conoscere sul campo una storia difficile e magari con l’occasione portare anche un piccolo aiuto.
Con noi infatti portiamo tante medicine, abiti e materiale scolastico che abbiamo deciso di smistare fra le valige da stiva, che abbiamo portato tutti intenzionalmente semivuote. Qualcosa entra ma tante scatole, che da sole raggiungono più o meno il peso di una valigia, all’aeroporto sembrano in un primo momento destinate a restare fuori. Così, senza perdersi d’animo, anche grazie al consiglio provvidenziale del controllore algerino, i tre uomini del gruppo si improvvisano ad impacchettare le scatole con la pellicola, per far figurare un’unica, grande valigia ed imbarcare tutto il materiale in stiva. Bene, mi dico fra me e me, il primo intoppo è passato.
E mi viene da sorridere: infine stiamo partendo ed il viaggio da mesi tanto temuto mi sembra incomprensibilmente tingersi di una luce nuova. La mia preoccupazione di poco fà era per i medicinali che rischiavano di rimanere a terra.
Dopo tanti anni di ansie per qualsiasi evento della vita, proprio qui prima di imbarcarmi sul volo per Algeri, mi sento stranamente tranquilla e serena. In questo momento sono io che voglio fare questo viaggio, con la mia “bambina”. E guardandomi intorno, fra queste persone dagli occhi speranzosi e dalle braccia volenterose, sento di potercela fare.
Raggiungiamo Algeri con un volo tranquillo, rifocillati in aereo da un triste pranzetto a base di pane e…formaggino da brodo! Senza glutine non è previsto niente ma io per ora sono premunita di panini senza glutine ripieni che innaffio con il succhino tropicale offerto da Air Algeri.
In aeroporto, per poter uscire verso la zona dei voli interni, il controllo visti è lunghissimo. Ci controllano tutte le valigie ed Asaria viene addirittura fermata al controllo perché il poliziotto ha scambiato per tabacco le barrette di cereali senza glutine che porta in valigia. Le tocca aprirne una per convincerlo che non si tratta di sigarette ma solo di riso soffiato al cioccolato. Ma tanto non abbiamo furia: siamo arrivati ad Algeri alle 16 e dovremo attendere fino alle 21 il nostro volo. Nel frattempo riusciamo a ricaricare a turno un pochino i cellulari alle sporadiche prese e a sfruttare la WiFi del misero bar della zona voli interni di Algeri, che regge solo qualche telefono connesso. Approfittiamo anche del bagno dell’aeroporto, l’ultimo dotato di acqua corrente prima dei campi.
Ma non tutti sono presi solo dalle necessità materiali del momento. Qualcuno di noi durante il viaggio ha avuto occasione di parlare con i cooperanti di altre associazioni e l’occasione deve esser stata galeotta. Così, mentre siamo ormai in fila per gli ultimi controlli, fra soldati in mimetica e controllori puntigliosi, come in una classica scena da film romantico un nostro compagno esce di corsa dalla fila per correre a recuperare il numero di telefono di una ragazza appena conosciuta… e rientra ai controlli all’ultimo istante, con gli occhi che brillano. Eccola di nuovo… una piccola scintilla di magia!
Arriviamo a Tindouf che è ormai passata la mezzanotte. Fortunatamente il controllo questa volta è velocissimo. Sul nastro via via arrivano tutte le valigie ed io rimango a fremere una buona mezz’ora… la mia è una delle ultime ad uscire ma infine sono arrivate tutte! Ci aspettano due furgoncini e due gip del Polisario che, viaggiando di notte, per scrupolo ci faranno da scorta. Percorriamo una strada buia, non ci sono illuminazioni laterali ma i fari del furgone ad un certo punto illuminano un cartello: “attenzione attraversamento dromedari”. Ci siamo, penso, decisamente non è una tangenziale di Firenze.
Sono stanchissima e mentre il furgone sobbalza lungo la strada mi perdo in questo indefinito paesaggio notturno, fra un fuori fatto di luoghi indecifrabili e un dentro abitato da persone ancora pressoché sconosciute. Mi addormento sobbalzando e guardando il nostro autista saharawi che mi ricorda tanto un re Magio, con il suo turbante azzurro avvoltolato sul capo e il volto serioso e scuro, impegnato alla guida.
I piedi nella sabbia sono la prima sensazione che ricevo da questo luogo, appena scesa dal bus. La sabbia, che entra attraverso la tela delle scarpe, che sento tra le dita. Ci resterà tutta la settimana e a questa sensazione, che ora è così preponderante, alla fine non farò neanche più caso. Ma adesso, anche se il mio sguardo è annebbiato dal sonno e confuso dal cielo – che stasera è illuminato da una strana luna di sogno, splendente e adornata da luci concentriche – la sabbia c’è e mi tiene ben ancorata a questa nuova realtà.
Ci sistemiamo velocemente nelle stanze assegnate. La nostra casetta è linda e ordinata, ricoperta ovunque di spessi tappeti, a parte l’ingresso centrale nel quale entriamo e lasciamo le scarpe e la sabbia. Malgrado la quiete intorno e la tanta stanchezza, anche questa notte trascorre piuttosto tormentata: mi rigiro senza tregua nel sacco a pelo, fra caldo e freddo, su di un piccolo materasso tanto colorato e grazioso all’apparenza quanto scomodo, duro come il legno e… bombato. Sì, nel senso che ha una specie di gobba centrale, per cui nella notte mi ingegno per dormire ferma in equilibrio al centro, altrimenti precipito da un lato o dall’altro! Ma niente paura, la situazione potrebbe sempre peggiorare…potrei dover andare in bagno. Ne parlerò solo una volta per poi tacere e senza dover scendere in dettagli, dirò solo che il nostro bagno (sempre ovviamente ringraziando il fatto che ci sia…) con il suo pavimento in terra battuta ed un unico buco in terra mi ricorda fortemente la scenografia paurosa di qualche film horror…
Giorno 2 – Domenica 17 novembre
Stamattina inizio a rendermi conto della realtà delle nostre sistemazioni e contemporaneamente a ridimensionare tutte le mie esigenze.



Siamo distribuiti fra due casette dalle mura fatte con mattoni di fango cotti al sole e dal tetto in lamiera; ospiti della famiglia di Abdhallaie che è il Rappresentante per il popolo Saharawi della regione Toscana ed in questa occasione anche il nostro accompagnatore. Quello che a me stanotte è sembrato un materasso scomodo è il quotidiano della famiglia che ci ospita che, con grande senso di ospitalità, si è spostata in altre baracche o tende per lasciare a noi questi spazi un po’ più comodi.
I campi profughi saharawi sono perfettamente organizzati a livello amministrativo dai rifugiati stessi e questa consapevolezza mi ribadisce ancora una volta che non si tratta di persone che vengono dal nulla. Malgrado il clima estremamente inospitale della poca terra che gli è stata data in uso dall’Algeria e malgrado la dipendenza assoluta dagli aiuti internazionali, l’esperienza dei campi saharawi differisce notevolmente da quella di altri campi profughi. Noi ci troviamo a La Guera, nella zona di Ausserd. Si tratta di un accampamento, è evidente, ma tutto è perfettamente organizzato.
Qui nei territori dei rifugiati “La Guera” vuole ricordare il paese originario che, con il medesimo nome, attualmente si trova in una sorta di terra di nessuno, al confine con la Mauritania, un luogo travagliato dall’ormai infinita contesa con il Marocco, nell’ennesima situazione conflittuale alla quale la comunità internazionale non riesce – o non vuole – dare soluzione. Così è anche per le altre 5 province, a cui i Saharawi in fuga hanno dato i nomi delle loro originarie città.
Da qui ripartiamo con calma al mattino. A nostra disposizione ci sono una jeep, che il gruppo delle ragazze requisirà anche nei giorni a venire come proprio mezzo di trasporto, ed il pulmino di ieri sera. C’è un’unica strada asfaltata che attraversa il territorio in uso ai Saharawi, per il resto si viaggia nella sabbia, fra buche e sassi. Cerco di fare qualche video al paesaggio circostante ma il sobbalzare continuo del furgone non è di aiuto. Ogni tanto qualche sobbalzo più forte e i rumori di strisciamento contro la strada mi fanno temere fortemente per l’integrità del nostro mezzo ma il nostro autista, sempre con il suo turbante azzurro ben calzato, non sembra preoccuparsene.
Il nostro viaggio è un viaggio poco fattivo, più che altro di conoscenza. Le delegazioni che vengono in visita, come la nostra, hanno come scopo principale la testimonianza di ciò che è la vita nei campi, per poter essere al rientro, la voce di questo popolo. Per questo per i prossimi giorni abbiamo un programma denso di incontri con i rappresentanti del popolo Saharawi e visite ai luoghi più simbolici degli accampamenti.
Oggi abbiamo due incontri istituzionali, uno con la governatrice di Ausserd (governatrice sì, perché su 6 comuni ben 5 sono governati da donne, come ci racconta la stessa governatrice) ed uno con il medico che gestisce l’ospedale al quale è stata donata l’ambulanza acquistata con le raccolte fondi del Comune di Montemurlo e di altre associazioni della Toscana.
Al centro medico abbiamo avuto la bellissima sorpresa di scoprire che il direttore sanitario che ci attendeva era l’accompagnatore dei bambini che lo scorso anno sono stati da noi a Montemurlo, il dottor David. Una persona meravigliosa ed orgogliosa del lavoro che svolge per la sua comunità, praticamente 24 ore su 24. Era decisamente felice di aver ricevuto un aiuto così prezioso come l’ambulanza e noi felicissimi con lui!


In questi giorni gli incontri con le persone sono per noi l’occasione per verificare con mano l’importanza degli aiuti umanitari e la reale difficoltà della vita quotidiana negli accampamenti. I problemi, anche quelli normali che si possono immaginare in qualsiasi vita, ci sono anche qui, senza sconti. Il popolo Saharawi resiste a tutto, con grande dignità e forza, cercando di risolvere un problema alla volta. Ma niente sarebbe possibile senza la cooperazione internazionale.
Rientriamo all’accampamento per il pranzo. La mia personale sfida qui ai campi è l’alimentazione gluten free. Fra gli aiuti accatastati negli scaffali del dispensario che abbiamo visitato oggi ho visto dei grossi sacchi di farina senza glutine. Oltre ai tanti problemi che la popolazione affronta infatti c’è anche quello della celiachia, comunque presente in percentuale nella popolazione. Può sembrare una piccola cosa ma vivendo il problema quotidianamente, nell’agiatezza del nostro benessere di casa, non posso non pensare alla difficoltà di chi deve seguire un regime alimentare – necessario per motivi di salute e non per la voglia di seguire una moda – in luoghi così disagevoli.
Oggi la famiglia ci ha preparato il cus cus. Io sono attrezzata con il mio a base di mais, per il quale mi occorre solo un po’ di acqua calda. Insieme c’è un pentolone con una sorta di spezzatino di verdure e carne. Il sapore è un po’ forte e così si aprono subito le scommesse: sarà capra? Sarà manzo? Ed invece scopriamo che… è gustosissima carne di dromedario!
Dopo un paio d’ore di riposo nel pomeriggio facciamo visita alla zona del mercato. Si tratta di un piccolo agglomerato di povere costruzioni adibite proprio alla vendita. Fino a pochi anni fa non c’era niente di simile qui ed in effetti è un segnale difficile da interpretare. Ci troviamo presso campi profughi, una sorta di “non luogo” dal quale questa gente spera di andarsene al più presto. Ed infatti per lungo tempo i Saharawi hanno vissuto nelle tende, rifiutando di costruire qualsiasi cosa potesse essere considerata stabile in una terra che non è la loro. Poi piano piano, una volta si è costruita la scuola, poi un dispensario ed ora anche un piccolo mercato. Dopo oltre cinquant’anni di attesa le diverse generazioni iniziano ad avere sentimenti divergenti e d’altra parte mentre negli anziani è ancora vivo il ricordo delle terre natali, per i giovani si tratta invece di un miraggio lontano, del quale hanno solo sentito parlare. Il loro presente è qui ed è qui che evidentemente stanno iniziando a pensare di migliorare la propria vita. La produzione locale ovviamente è davvero limitata, se non inesistente, ma è logico: da queste terre non si ricava nulla e tutti i materiali provengono dalle donazioni. Le poche cose qui in vendita sono algerine o, neanche a dirlo, cinesi. Sono esposte principalmente stoffe: grandi pezze fantasiose che, abilmente drappeggiate, diverranno le melfe delle donne o lunghi teli per creare i turbanti che colorano il capo degli uomini. Io sono ormai affascinata dal nostro autista dal bel turbante azzurro e così acquisto una leggera stoffa turchese, con l’intenzione di farmi insegnare ad indossarla come qui detta la moda.
Il menù della cena di stasera prevede un riso giallo alla curcuma, carote e qualche pezzo di pollo. Oggi a pranzo avevamo lasciato un po’ di cus cus che era tanto e stasera Sadani, la ragazza che cucina per noi, ha rimodulato le misure ed il riso invece è un po’ pochino… Qui ai campi grazie agli aiuti non manca niente ma tutto è estremamente prezioso e non si possono rischiare sprechi. Così abbiamo capito che è fondamentale spolverare sempre tutto!
Terminiamo la serata tutti insieme nella casa accanto alla nostra, che per certi aspetti è un po’ più fortunata. Qui anche le piccolissime cose che per noi sono scontate, come un piano di piastrelle sul pavimento del bagno, sembrano oro.
Le ragazze saharawi stasera hanno voglia di festa, le novità sono rare e l’occasione di accendere la musica è imperdibile. Fra balli e canti tipici si fanno oltre le 23… stanotte sono sicura che riuscirò a dormire!
Giorno 3 – Lunedì 18 novembre
La mattina non inizia mai troppo presto. Probabilmente a causa del clima caldo del giorno i Saharawi sono dei gran nottambuli, per cui prima delle 9:30 non si riesce quasi mai a partire. Ma stamattina c’è una gran fretta poiché la giornata prevede tante visite, in zone un pochino più distanti dalla nostra.
Sembra strano raccontare che in accampamenti nel deserto ci siano cose da visitare a parte dune e tende. Ma questa è proprio la particolarità degli accampamenti saharawi: anche se la vita è una mera sussistenza che dipende inevitabilmente dagli aiuti umanitari, questo popolo non si è mai rassegnato. L’organizzazione degli accampamenti riproduce per quanto possibile quello che era l’originario ordine dei loro territori. Ci sono 6 “daire” (di cui una appunto è quella dove ci troviamo noi) ed ognuna ha una scuola per i bambini ed un presidio medico.
Il mio primo pensiero è che siano un popolo di irriducibili sognatori – davvero “fra le nuvole” – ma in effetti l’idea è concreta: gli elementi costitutivi di uno stato sono il territorio, il popolo ed un’organizzazione di governo su quel territorio. Mi sembra evidente che qui ci sia un popolo, accomunato da lingua e tradizioni, ed una forma di governo che pare perfettamente funzionante e che i Saharawi sarebbero pronti a riportare esattamente così com’era nella loro terra d’origine, dalla quale sono dovuti fuggire ormai cinquant’anni fa.
Al popolo delle nuvole manca soltanto la propria terra. Per il resto la loro organizzazione è perfettamente funzionante ed efficiente e più volte in questo viaggio la meraviglia di ciò che stiamo vedendo qui nel deserto mi lascia a bocca aperta.

Oggi per prima cosa visitiamo la scuola di… cinema! Eh sì, in questo posto dimenticato dal mondo un gruppo di giovani Saharawi si è inventato addirittura una scuola, dove insegnare ai ragazzi a fare riprese, montaggi etc. Ma non ci si limita a fare finta: tutti gli anni ad aprile qui si svolge il “FiSahara Festival” un vero e proprio festival del cinema, proprio nel deserto!
Info: https://fisahara.es/en/
Dalla scuola di cinema ci dirigiamo poi alla “Casa delle donne”. Ci fanno salire di nuovo in furgoncino anche se abbiamo impiegato pochissimo tempo da un punto all’altro. Secondo me sarebbe stato carino anche andare a piedi ma ci dicono che non sia opportuno e sicuramente hanno le loro ragioni, a me resta però la convinzione che il giorno non ci sia alcun pericolo e la realtà sia che ai Saharawi davvero non piaccia camminare… in tema di attività fisica mi sembrano più faticoni di me e si ingegnano per evitare in qualsiasi modo anche pochi passi in più!
La “Casa delle donne” è un’associazione che si occupa di sostenere le attività e le esigenze peculiari femminili. Hanno anche un piccolo bazar dove possiamo acquistare alcuni oggetti di artigianato, finalmente di vera produzione locale, come le teiere, piccoli gioielli di metallo o perline e deliziosi porta profumi colorati, i cui proventi andranno a finanziare le tante attività dell’associazione. Di fronte al bazar c’è un negozietto di alimentari dove noi tutti, ragazze in testa, entriamo curiosi in cerca di merende. La proposta in materia di merenda però è poco accattivante e, a parte qualche polveroso dolcetto confezionato, prevede principalmente pane e mosche o in alternativa datteri e mosche. Così, malgrado la seconda opzione sia anche senza glutine, decido di soprassedere ed attendere il pranzo.
L’incontro istituzionale della giornata di oggi, con la presidentessa del Consiglio Nazionale delle donne, è stato per me uno dei momenti più interessanti del viaggio. Come sempre ci accolgono in una stanza ricoperta di tappeti ed arredata con tavolini bassi disposti in circolo. Tutti poveri oggetti consunti dall’uso ma lustrati e disposti con gusto ed attenzione. Ad ogni incontro ci viene offerto sempre qualcosina da mangiare: piccoli vassoi con datteri, qualche pastina confezionata o dei biscotti, bottiglie di acqua e succhi di frutta, oltre l’immancabile tè che ci viene servito ad ogni occasione. Magari nelle case c’è pochissimo ma è evidente quanto qui l’ospitalità sia un valore sacro. L’incontro di oggi si rivela davvero interessante anche per le domande che vengono poste dai nostri compagni, così che vengono trattati vari temi che interessano la popolazione femminile da ogni parte del mondo, dalla violenza domestica, alla salute, all’istruzione. Mi colpisce in particolare la riflessione sulla violenza domestica. La presidentessa ad una prima traduzione sembra affermare che qui ai campi non esiste violenza, in realtà poi comprendiamo che non intende proprio questo. Come in tutti i gruppi umani, anche qui purtroppo la violenza può esserci ma quello che ci vogliono dire è che la cultura di base di questo popolo pacifico respinge fortemente la violenza, anche di genere. La reazione della comunità Saharawi in questi casi è di addossare totalmente all’uomo la responsabilità delle violenze domestiche, questo perché il sentimento di vergogna in questa società non è verso la donna “che se l’è cercata” ma nei confronti dell’uomo che ha usato violenza. Riflessione che sarebbe interessante anche nelle nostre comode dimore italiane…
Presi dalla discussione allunghiamo un po’ troppo il tempo dell’incontro ed arriviamo tardissimo a casa. Il pranzo di oggi consiste in zuppa di verdure e deliziosi fagioli alla curcuma. Posso mangiare tutto, semplicemente aggiungendo un paio di fette del mio pane al posto del pane arabo che ci viene servito.
In questi giorni si chiacchiera e si discute tanto, il gruppo è composto da persone davvero interessanti, che ci raccontano le loro esperienze di vita e di viaggio. Nel frattempo i bambini saharawi sono sempre con noi. Entrano in casa; vengono a curiosare se apriamo la valigia, in cerca di “marcadores” i pennarelli; vogliono giocare con le ragazze. La mattina li vediamo uscire dalle case o dalle tende, con i grembiuli rosa e blu, attendono i loro amici e poi corrono verso la scuola, seguiti dalle caprette che il giorno vagabondano libere. Sono meravigliosi, aperti e liberi, ma basta che la mamma faccia una voce perché rientrino alle case. Tutti, tranne Sut. Sut è una dei bimbi di Sadani, avrà forse quattro anni, ed è una piccola peste. É in costante movimento, sempre pronta a combinare qualche marachella e la mamma la chiama di continuo, urlando a più riprese il suo nome. La voce di Sadani che chiama e lo sguardo furbetto di Sut. Ecco una delle tante cartoline che mi riporterò in Italia, fra i ricordi più belli di questo viaggio.





Nel pomeriggio raggiungiamo Smara, per visitare uno dei progetti più interessanti della zona. Si tratta di un programma finanziato con fondi di solidarietà esteri ma studiato ed attuato interamente da una famiglia saharawi, un fratello ed una sorella che sorridenti ci raccontano il loro sogno. Si tratta di un allevamento/coltivazione circolare: in pratica un vivaio di pesci d’acqua dolce la cui acqua reflua viene utilizzata per irrigare piantine di insalata, piantata direttamente nelle scanalature di tante rastrelliere a mensola dove scorre una righina d’acqua. La stessa acqua poi rientra nel vivaio, in un circolo virtuoso dove, senza lo spreco di nessuna goccia, si producono due prodotti utili all’alimentazione locale: pesce e verdura. Di tutta la produzione poi, la metà viene venduta al mercato, l’altra metà distribuita gratuitamente alle famiglie della zona.



Nel tardo pomeriggio riusciamo anche a visitare il centro Giovani. Qui, parlando con ragazzi giovani e giovanissimi, è inevitabile fare riflessioni sul futuro. I pensieri di questi ragazzi mi colpiscono tanto: sono stanchi, stanchi di racconti di paesi lontani e di una pace che sembra sempre più irraggiungibile e, con la premura tipica della loro età, vorrebbero una soluzione subito. E per la prima volta da quando siamo qua, si parla di guerra. Perché questi ragazzi, abbandonati da una diplomazia inefficace dalla quale non hanno mai raccolto alcun frutto, purtroppo iniziano a pensare alla guerra come ad una possibile soluzione.
Sono ormai quasi le sette di sera ed all’uscita dal Centro Giovani un profumino familiare arriva da una baracchina nel deserto. Pizza… davvero sembra incredibile, pizza nel bel mezzo di un gruppo di sconquassate baracche nel deserto! Ottima pizza tra l’altro (mi raccontano) condita in modo un po’ improbabile con quel che c’è, ovvero scatolette di tonno e sottilette, ma dall’impasto delizioso. Le ragazze acquistano almeno tre pizze, probabilmente risolvendo in una serata l’economia del piccolo negozio.
Dopo la pizza, rientrati a casa troviamo comunque la nostra cena, una zuppa di carote e un uovo sodo. La zuppa è davvero buona, leggermente speziata con la curcuma, ed io la mangio piuttosto volentieri perché stasera sono veramente stanca e questa zuppetta calda (che tenterò invano di riprodurre a casa) fa molto comfort food…!
Oggi poi sono particolarmente felice perché sono riuscita a contattare Bneize, la piccola ambasciatrice di pace Saharawi, nostra ospite di un paio di anni fa e con la quale ci sentiamo ancora via whatsapp. Sono emozionatissima perché ci ha parlato Lalla, la nostra interprete. Sembra che abiti abbastanza vicino e che probabilmente verrà a trovarci domani pomeriggio. Sarei felicissima di rivederla.
Quando vengono in Italia i bimbi saharawi hanno il preciso compito di testimoniare la lotta pacifica del proprio popolo. Ma quando arrivano nelle nostre case i bimbi fanno molto, molto di più. Con i loro modi gentili, il loro stupore per tutto ciò che per noi è scontato e quotidiano, ci aprono gli occhi sulla realtà privilegiata del nostro mondo. Nei pranzi e nelle cene di questi giorni, vedendo la cura con cui Sadani ripone tutte le cose, ho ripensato ad un piccolo episodio accaduto durante il primo anno di ospitalità dei bimbi. Una sera, dopo aver sparecchiato la tavola, con un gesto abitudinario ho scosso in terra le briciole della tovaglia. La mia piccola ospite è letteralmente trasecolata, si è inginocchiata in terra e con le manine ha iniziato a raccogliere le briciole. A quel punto mi sono chinata anche io, abbiamo raccolto tutto e si è tranquillizzata. Ecco, come dicevo, qui ai campi è necessario non sprecare nulla.
Trascorriamo una bellissima serata tutti insieme nell’ingresso della nostra casa, ascoltando Abdhallaie che ci narra la storia della resistenza Saharawi. Lui era bambino, ma ricorda bene il panico della fuga, durante quella che il Marocco chiama “marcia verde” e che i Saharawi ricordano invece come la “marcia nera”…
Info: Il Popolo del deserto https://www.raiplay.it/video/2018/12/Speciale-Tg1-f41a483d-c124-4f5a-a2e9-5fd6b8518856.html
Giorno 4 – martedì 19 novembre
Stamattina le nostre visite iniziano a Smara, da un centro diurno per bimbi con problemi psicofisici, gestito dal “dottor Castro”.
Non è il suo nome vero ma poiché ha studiato medicina a Cuba la popolazione locale, che come in tutti i piccoli paesi ama pettegolare (ed evidentemente le daere saharawi non fanno eccezione!) lo ha soprannominato in questo modo. Il centro è conosciuto proprio così: Centro educazione speciale del dottor Castro.
Al nostro arrivo capiamo subito di essere in un posto davvero speciale. Sopra ad ogni porta è appesa una frase e la prima recita così: “Aqui no crecen plantas ni arboles pero florecen personas”, “Qui non crescono né piante né alberi, ma fioriscono le persone”.


Il dottore ci racconta che, quando ha iniziato a organizzare il centro, la gente gli diceva che era pazzo, pazzo come i bambini che voleva curare. Ed in effetti appena si presenta, il dottor Castro un po’ folle lo sembra. Ha gli occhi che ridono, sempre spalancati come se non dovessero perdersi nemmeno un istante della vita e si muove velocissimo. Ha furia, deve riprendere il suo lavoro e così ci fa correre da una stanza all’altra. Ci mostra i suoi bambini, ci spiega cosa gli fa fare, come gli insegna con i pochissimi mezzi che ha. Qui non ci sono macchinari per la riabilitazione o giochi educativi. Si utilizza quel che c’è con la massima fantasia e così anche una caramella diventa una piccola enciclopedia: con una caramella si spiegano i colori, il dolce e il salato, le caramelle si contano e si imparano i numeri… tutto il poco che è qui dentro viene usato come stimolo per i bimbi. Ci racconta anche che ai suoi bambini insegna prima di tutto a non sentirsi diversi e ad essere autonomi. Insegna poi che il denaro si ottiene con il sudore della fronte, non elemosinando e soprattutto mai rubando. Perché Castro è convinto che tutto si può fare e a quelli che ancora lo chiamano pazzo risponde che tutte le cose all’inizio sono difficili ma che niente è impossibile.

Esco da questa visita molto colpita. Mi viene da piangere ma poco da fare: se sono felice piango, se sono triste piango, se sono nervosa piango. Asaria mi prenderà in giro tutta la giornata affermando che qui potrebbero brevettarmi per provare ad irrigare il deserto. Ma tant’è. Questo non è un viaggio semplice, sotto nessun aspetto.
Mentre rientriamo mi sorprendo a pensare che sono stanca e non vedo l’ora di rientrare a casa. A casa, non in Italia ma qui, ai campi Saharawi. Sto pensando “casa” e ho in mente la nostra baracca dove c’è il mio sacco a pelo, dove ogni mattina ci accoglie al giorno il timido sorriso di Sadani, negli spazi fra le tende e le baracche, dove risuonano le voci gentili di questa gente. Mi accorgo che ormai riconosco la zona. Le recinzioni per gli animali, fatte di vecchie reti e bidoni, le due baracche prima della nostra, la tenda verde da cui tutte le mattine esce un bimbo con il grembiulino blu, pronto per la scuola. Ora anche qui mi sento a “casa”.
Stasera prima di cena abbiamo avuto l’occasione di un altro incontro emozionante e particolare, con un soldato del fronte. Quando entriamo nella baracca di Sadani lo troviamo seduto sui tappeti del pavimento, davanti al vassoio del tè. Ha il viso brunito e serioso, sul capo un turbante azzurro cielo. È qui per raccontare la guerra, una guerra disperata, che il governo Saharawi sta scegliendo nuovamente dopo aver atteso 50 anni in esilio che la diplomazia riuscisse a far rispettare il diritto internazionale, la promessa di un libero referendum per gli abitanti del Sahara Occidentale. Ci racconta di un esercito dal cuore pieno di coraggio ma armato con resti di armamenti di trenta anni fa, esiguo in numero rispetto all’esercito marocchino e impossibilitato a smuovere passi di fronte ad un muro di 2600 kilometri che lo separa dalla terra che vorrebbe riconquistare. Le sue parole gravi si arrotolano nel dialetto arabo e lui continua nella narrazione mentre Lalla, la nostra interprete, traduce per noi con la sua voce dolcissima e chiara. Con gesti sapienti il nostro soldato muove i bicchierini da tè, versandoli uno nell’altro, aggiunge lo zucchero. Poi si ferma con una delle zuccheriere in mano. Improvvisamente, ascoltando la narrazione, è come se le belle zuccheriere di peltro decorato si trasformino in mine nelle sue mani. Ci mostra le varie grandezze, ci dice quanti uomini possono morire per quelle: la mina come la zuccheriera piccola può uccidere un uomo, quella media può ucciderne fino a tre. Ascoltandolo mi sento trasportare dalle emozioni, di nuovo come la prima sera, in un’atmosfera di sogno che però stavolta è un brutto sogno. Il fumo acre del carbone su cui si scalda il tè adesso non ha più l’odore caldo di una casa saharawi ma quello terribile dei fumi della guerra. Quando esco dalla tenda sono profondamente turbata. Da convinta pacifista non riesco ad accettare la soluzione della guerra ma mi è comprensibile per quale e quanta disperazione si sia arrivati ad una simile risoluzione.
Di fronte a due deliziose tortillas di patate anche a cena si chiacchiera e si discute. Io però stasera ho poca voglia di compagnia e mi ritiro presto, le ragazze invece fanno festa con musica e tamburi nella casa accanto.
Info: https://www.geopop.it/cose-il-muro-del-sahara-occidentale-che-divide-in-due-il-marocco/
Giorno 5 – mercoledì 20 novembre

La nostra delegazione è un gruppo piuttosto eterogeneo, costituito in prevalenza da giovani donne, tutti per vari motivi interessati alla conoscenza della causa Saharawi. Siamo divisi in due abitazioni: mura di fango e stracci, tetto di lamiera, sabbia tutto intorno. Si tratta di un campo rifugiati, niente di più. La casa dove risiedo io però, ovviamente con la mia solita fortuna, è un po’ più disagiata. Il nostro bagno è una turca piantata sulla terra battuta, nell’altra casa c’è la solita turca ma il bagno è piastrellato in terra e dotato di un piatto doccia (ovviamente non funzionante ma sicuramente utile per avere un appoggio dove tentare di sciacquarsi un po’ con una bottiglietta…).
La nostra casa è servita da una dolcissima ragazza di nome Sadani. È sola a fare tutto, cucinare e rigovernare, cosa che deve essere difficile in questa situazione. Poi deve gestire anche la sua baracca di lamiera, dove si sono trasferiti per fare posto a noi, e due bimbi piccolini, per cui la poverina ci lascia il vassoio con il cibo e scappa via a riparare alle altre mille incombenze. Nell’altra casa ci sono la madre con due figlie grandi, che aiutano gli ospiti nelle piccole esigenze e alle volte riescono a cucinare qualcosina di più di una zuppa, peraltro sempre deliziosa (e dire che qui, per riuscire con quel poco che c’è, evidentemente la nostra dolce Sadani deve essere anche una fenomenale chef). Ma come si dice… noblesse oblige, infatti gli ospiti della dimora più ambita devono in realtà anche sopportare la presenza continua delle donne saharawi, che chiacchierano ad alta voce dal mattino presto e la sera ascoltano musica a tutto volume suonando i tamburi.
Ovviamente dopo un paio di giorni la voce del bagno e del tè si è inevitabilmente sparsa. E così, con buona pace di tutti, ci ritroviamo in grande compagnia pazientemente in fila per il bagno “più bello” (a parte qualche avventuroso che anzi approfitta felicemente della nostra turca sempre libera!) e tutti ci ritroviamo perennemente seduti sui tappeti della casa accanto a chiacchierare in attesa dell’ennesimo tè!
A parte i movimenti interni al gruppo, la visita ai campi prosegue a ritmo serrato ed anche oggi abbiamo la possibilità di visitare posti davvero speciali. La prima tappa di stamattina è l’oasi chiamata “9 giugno”, presso Rabuni. Qui è in atto un bellissimo progetto di coltivazione di una pianta medicinale utile per abbassare la glicemia, la moringa. Si tratta di una pianta originaria dell’India ma che si è scoperto di poter coltivare bene anche in questi climi. Qui viene coltivata con metodo biologico e ne viene prodotta una polvere utilissima come integratore per la popolazione locale (che ha grossi problemi di diabete, secondo me anche per la quantità di zucchero che utilizzano per il tè e soprattutto per i cibi spesso ultra processati che gli arrivano con i pacchi di aiuti umanitari).
Anche oggi purtroppo si parla di guerra: la nostra seconda tappa infatti è il Museo della Resistenza. Si tratta di una grossa struttura militare proprio accanto all’oasi che abbiamo appena visitato. Vi sono varie stanze intorno ad un grande cortile interno, ognuna dedicata ad una parte di museo. C’è una stanza in particolare, dove sono state raccolte tante mine, suddivise e catalogate in base al luogo della loro fabbricazione, disposte accanto alla bandierina del paese di produzione e la bandiera italiana purtroppo accomuna tante, troppe qualità di questi tremendi ordigni.
Durante tutta la visita ci ha accompagnato un militare. Ha il viso scuro ed un piglio piuttosto deciso. Ci dice di essere un appassionato di storia ed infatti si dilunga moltissimo nel raccontarci la storia più recente del popolo saharawi. Ad un certo punto, visti i tempi piuttosto ristretti che abbiamo, il nostro accompagnatore si permette di chiedere di velocizzare un pochino il racconto, facendo arrabbiare terribilmente il soldato. Ed anche se è tardissimo, anche se abbiamo ancora una tappa e la pancia ci comincia a brontolare, lui ha ragione. Siamo venuti fino a qui per ascoltare le loro voci, ascoltarle tanto bene da poter divenire poi noi la loro voce verso il mondo. E così, con i tempi giusti, riusciamo ad ascoltare tutto il racconto e visitare il museo. Con le sue parole ed i suoi racconti il soldato dall’aspetto burbero che ci sta accompagnando ci appare una persona estremamente sensibile e con un gran cuore, caratteristiche quantomeno inusuali visto il ruolo che ricopre. Eppure quando ci racconta che avrebbe voluto studiare ma ha sentito come un dovere la difesa del proprio popolo, gli occhi che luccicano sotto il berretto militare sono occhi buoni.

Ormai oltre l’una del pomeriggio arriviamo alla terza ed ultima tappa di oggi, il Museo dei Desaparecidos. La Asociación de Familiares de Presos y Desaparecidos Saharauis (AFAPREDESA) è un osservatorio permanente che raccoglie e cerca di dar notizia delle tante violazioni dei diritti che il governo marocchino mette in atto contro la popolazione saharawi ancora residente nei territori occupati. All’ingresso ci accoglie Abdeslam Omar Lahcen, presidente dell’associazione e factotum. Ci racconta delle tante vittime che i Saharawi contano per le sistematiche violenze, perpetrate soprattutto contro gli attivisti che operano nei territori occupati e ci racconta anche dei tanti “scomparsi” i desaparecidos. Si tratta molto spesso di giovani, spariti nel nulla e dei quali non si ha più notizia; giovani saharawi che il governo marocchino non si occupa nemmeno di cercare, giustificandone la sparizione come una fuga volontaria verso i territori liberati.


Info: www.afapedresa.org
Oggi ascoltando i tanti racconti terribili di questa gente ho però anche imparato un detto arabo che mi ha fatto ridere. Per dire a qualcuno che non è il benvenuto e di andare a cercare lavoro altrove, o comunque andarsene in un altro luogo, gli si dice “vai da un’altra parte a cercar lenticchie!”. Neanche a dirlo, oggi per pranzo ci stavano aspettando due tegamoni di lenticchie… ed allora è evidente che qui ci vogliono bene!
Anche nel pomeriggio proseguiamo le nostre visite, fra centri medici e scuole. Come da ogni parte del mondo, anche qui ai campi saharawi i bambini sono la meraviglia della vita, i meravigliosi fiori di questo deserto, sempre sorridenti, felici del niente che hanno.
Appena il furgone si avvicina accorrono tutti intorno, saltellando e gridando. Appena scendiamo ci abbracciano, ci tirano per le magliette, ci chiedono di cantare e giocare. Hanno i sorrisi sempre accesi ed è evidente che non sono certo le condizioni economiche a dettare la misura della felicità.
Nelle classi sono divisi per età, con i loro grembiulini ordinati. Li abbiamo sentiti cantare, recitare l’alfabeto o i numeri alla lavagna, li abbiamo visti impegnatissimi a portare a coppie un grande secchio con il latte per la merenda della loro classe. Le pareti esterne delle scuole sono sempre decorate con murales e disegni, in una piccola stanza qualche maestra ha usato sabbia e sassi per costruire dei giochi da tavolo. In ogni luogo troviamo cura e organizzazione. Ad una scuola doniamo un computer, ad un altra materiale scolastico, al centro medico medicine e abiti. Loro ci donano sorrisi, occhi che brillano, canti di bambini.
Il clima di questi giorni, che nelle previsioni prometteva freddo, in realtà è mite e la sera si sta volentieri fuori a guardare le stelle. Stasera i nostri ospiti hanno approfittato del meteo per stendere i tappeti all’aperto. Abdullay è andato a comprare le pizze che erano piaciute tanto e mangiamo tutti insieme chiacchierando. I bimbi sono felicissimi della serata pizza e per festeggiare ovviamente mettono come sempre la musica a tutto volume. La hit preferita è “bella ciao” che viene suonata in strane versioni piuttosto dance e scatena ogni volta un putiferio di canti e bimbi danzanti!



Giorno 6 – Giovedì 21 novembre
Anche la mattina di oggi trascorre fra visite istituzionali, presso un altro centro disabili per ragazzi un po’ più grandicelli e nuovamente ad una scuola.
Non ci allontaniamo molto da Ausserd ed infatti con nostra sorpresa, la scuola dove siamo stamani è quella frequentata dai bimbi dei nostri ospiti. Ci troviamo per l’appunto nel momento della ricreazione: i bimbi sono tutti in cortile e, curiosi della novità che rappresentiamo e fuori dal controllo diretto delle maestre, si divertono a chiederci e richiederci i nostri nomi e la nostra provenienza, in un’enorme confusione gioiosa e colorata.
Rientriamo presto a casa perché per stasera i nostri ospiti hanno previsto una cena davvero speciale… fra le dune del deserto! La partenza è molto presto nel pomeriggio poiché è necessario ritornare prima di buio. L’idea di questa gita fuori porta è decisamente allettante per tutti e tutti vogliono partecipare. Così sul pulmino insieme a noi salgono anche le famiglie saharawi e… quanti più bambini possibile! Seduti nei sedili in fondo, come birbe in gita, fanno suonare la musica a tutto volume – “bella ciao” ovviamente, neanche a dirlo! – mentre saltellano sui sedili e si tuffano (anche sulla mia testa) giù dagli schienali; un paio di ragazze accenna qualche passo di danza in piedi nel corridoio centrale mentre il furgoncino sobbalza fra sassi e piccole dune.
Per muoverci oggi abbiamo di nuovo la scorta armata, quattro militari su una jeep che ci precede e, anche se a me sembra sempre uno scrupolo eccessivo, oggi si rivela provvidenziale… per aiutarci a sbloccare il pulmino!
Infatti, corri corri in mezzo al niente, infine i miei più terribili timori si materializzano quando il furgoncino rimane impantanato nella sabbia. Dobbiamo scendere tutti, liberare un poco la ruota dalla sabbia e poi spingerlo fintanto che fortunatamente riparte fra gli applausi. Un bell’applauso liberatorio sì perché, malgrado i sorrisi sornioni, secondo me sotto sotto eravamo tutti un po’ preoccupati: ed in effetti guardandoci intorno, qui non si vede altro che sabbia dorata a perdita d’occhio…






Stasera le famiglie Saharawi hanno preparato un picnic davvero fenomenale ed è una meraviglia vedere come quel poco che c’è sia utilizzato al massimo: ci sono alcuni mandarini e banane disposti ad arte su un piatto ed un vassoio di riso decorato con un poco di spezie colorate. Tutto arriva dalle derrate alimentari fornite dalla cooperazione internazionale. Per questo la cucina saharawi è attenta a non sprecare ed il cibo è trattato con sapienza, attenzione ed un rispetto che nel “nostro mondo” non riusciamo più nemmeno a percepire. Direi che anche Masterchef avrebbe tanto di che imparare.
Ma il piatto principe della serata sono gli spiedini di carne di cammello che arrostiscono su di una piccola griglia. Io li trovo deliziosi ma mi sembrano poco cotti, così chiedo a cenni di poter rimettere il mio spiedo un pochino sulle braci. Credo di aver offeso mortalmente il nostro amico addetto alla griglia, perché mi ha fulminato con lo sguardo ed io mi sono sentita un po’ come quando in Toscana qualcuno chiede la bistecca fiorentina ben cotta. Ma tant’è, lo spiedino cotto secondo me mi ha salvato, poiché dal giorno successivo un po’ tutti hanno iniziato ad avere qualche problemino gastrointestinale. Ma per ora, ignari anche dell’immediato futuro, ci godiamo questo momento magico. Attendiamo il tramonto seduti sulla sabbia mentre la sfera del sole scende veloce fin dietro alle dune. Una luce dorata e radente posa un velo di seta su tutto e di nuovo, come il primo giorno all’arrivo, tutto mi sembra di sogno.
Rientriamo non appena inizia a far buio e a risvegliarmi dalle mie fantasie nella sabbia ci pensano i “nostri” bambini che cantano per l’ennesima volta “bella ciao” nel caos più totale del pullman.
Non è troppo tardi e così ci ritroviamo tutti insieme a chiacchierare un po’. Qualcuno oggi al mercato ha fatto acquisti impensabili: due pacchi di spaghetti con improbabili scritte pubblicitarie in arabo ed una scatola di salsa di pomodoro dalla dubbia provenienza. E dato che ormai stasera siamo lanciati nella cucina più sfrenata, il nostro amico Simone, che nella vita fa il cuoco, riesce a tirare fuori un delizioso spaghettino di mezzanotte …tanto delizioso da venire spolverato talmente velocemente che non ne rimane neanche un piatto per il povero Abdhullai, arrivato per ultimo!
Giorno 7 – venerdì 22 novembre
Oggi è il nostro ultimo giorno ai campi, il volo per il rientro è previsto per stanotte. Abbiamo ancora un impegno istituzionale che ci attende, l’incontro con il Ministro della Salute, per formalizzare i ringraziamenti per la donazione dell’ambulanza. La mattina siamo liberi di fare un’ultima visita alla cittadina di Aayun. Aayun è la principale cittadina dei campi, corrispondente come sempre alla medesima cittadina originaria presso i territori occupati in Sahara Occidentale. Anche qui è presente una strada di mercato, con stoffe e chincaglierie, dove noi approfittiamo per acquistare collanine, bandiere e piccole spille da rivendere al mercatino che di solito allestiamo in occasione delle serate di raccolta fondi in Italia.
Poiché l’incontro con il Ministro è previsto presso l’abitazione del dottor David per l’ora di pranzo, rientriamo verso mezzogiorno. Ci accomodiamo in una stanza dell’abitazione dove è stato allestito una sorta di piccolo rinfresco di datteri e dolcetti e attendiamo. Attendiamo, attendiamo… il ministro deve aver avuto un contrattempo (ma è anche probabile che sia sbagliata la nostra interpretazione dell’orario del pranzo…) fatto sta che alle tre del pomeriggio ancora stiamo aspettando.
Ma non si tratta di un’attesa noiosa. Come sempre qui nessuno si sconforta e, sgranocchiando datteri e bevendo l’ennesimo bicchierino di tè, ci mettiamo a chiacchierare. Siamo seduti in una sorta di cerchio e decidiamo di raccontare in una parola la nostra esperienza di questo viaggio. Come nelle tante sere trascorse a chiacchierare, anche questo confronto con le impressioni ed i sentimenti degli altri mi arricchisce di pensieri e riflessioni ed ancora oggi quei momenti sono per me uno dei ricordi più belli del viaggio ai campi saharawi.
Info: https://www.spsrasd.info/es/2024/11/22/6429.html
Salutato finalmente il ministro, è per noi il momento di rientrare. Salutiamo anche il nostro caro amico dottor David e, non senza qualche lacrima, salutiamo anche Lalla, la bravissima interprete che ci ha accompagnato tutti questi giorni. Stasera saluteremo anche le famiglie che ci hanno ospitato e saluteremo questi luoghi di sabbia.
Strana sensazione. In occasione dell’ospitalità dei bimbi saharawi in Italia mi sono sempre domandata come sarebbe stato per loro il rientro. Ho sempre pensato con grande presunzione che il momento dei saluti sarebbe stato per loro molto triste, nella convinzione di quanto sia difficile lasciare le nostre comodità per rientrare presso questi luoghi. Chissà, magari è anche un po’ così, ma oggi quella triste di rientrare sono io. Indubbiamente il pensiero della mia comoda doccia calda è allettante ma adesso ho il groppo in gola.
La casa non è un luogo fisico, “casa” è ovunque siano i nostri affetti ed i nostri ricordi. E da oggi per me un pezzetto di casa è anche qui, in questi prati di sabbia dove “fioriscono le persone”.
P.S. In questi lunghi giorni, mentre appunto i miei ricordi sul bloc notes del telefono, sto spesso seduta sul mio sacco a pelo. La porta è ovviamente sempre aperta a lasciar entrare vento, sabbia e…bambini. Furbetti come sono mi hanno ovviamente scoperta quasi subito. Mi hanno chiesto cosa faccio e io ho cercato di spiegargli che racconto di loro nel mio diario. E ovviamente si sono sentiti presi in causa tanto da voler partecipare. Così mi hanno chiesto di scrivere qualcosa anche loro… ed io non mi sono sentita né di dire di no e tantomeno poi di cancellare.
Così, ecco qua le firme delle mie meravigliose bimbe saharawi:
Mariam, Àlia, Alìa, Habiba
A presto…!